di Jacopo Manni
Il tempo non è una traiettoria lineare, ma un’illusione che si scompone e si ricompone tra il rimpianto del passato e l’ansia del futuro, sfuggendo sempre al presente. Schopenhauer lo definiva un inganno della coscienza, un rincorrersi perpetuo di attimi inafferrabili. Così, venticinque anni possono essere un battito di ciglia o un’era sedimentata, a seconda dello sguardo che li scruta.
Nel marzo del 2000, l’Italia si trovava sulla soglia di un’epoca, con un piede nel Novecento e lo sguardo rivolto a un futuro incerto. La politica era una scacchiera in movimento: Massimo D’Alema, primo leader postcomunista a governare il Paese, lasciava Palazzo Chigi dopo la disfatta elettorale, mentre Giuliano Amato raccoglieva le redini di un’Italia in bilico, traghettandola fino alle elezioni del 2001, quando Berlusconi avrebbe riconquistato il potere. Intanto, l’euro avanzava: simbolo di un’Europa unita, ma anche di fragilità economiche pronte a esplodere. Il PIL cresceva del 3%, ma il debito pubblico si attestava sopra il 109%, mentre il mercato del lavoro si frammentava sotto il peso della precarizzazione e della disoccupazione giovanile. La globalizzazione svuotava le fabbriche del Nord e lasciava il Mezzogiorno in una stagnazione senza fine. La rivoluzione digitale era solo un sussurro: appena il 16% degli italiani aveva accesso a Internet, mentre il Paese si scopriva sempre più multietnico, con 1,5 milioni di immigrati e un’identità sociale in trasformazione.
In questo scenario di fratture e rinegoziazioni, due giovani lasciavano Milano per Cupramontana, compiendo un movimento che la geografia descrive come contro-urbanizzazione e riterritorializzazione rurale. Corrado Dottori e Valeria Bochi sceglievano di sottrarsi alla logica metropolitana per ricongiungersi alla terra, rivendicando un’agricoltura etica e sostenibile, distante dalle logiche del mercato globale. In un’epoca in cui la modernità si misurava in velocità e digitalizzazione, loro scelsero la lentezza e la materia.
Corrado Dottori, vignaiolo e scrittore, è autore, tra gli altri, di Non è il vino dell’enologo, un manifesto contro l’omologazione enologica e in difesa di un vino artigianale, espressione autentica del territorio. Insieme alla compagna Valeria Bochi, ha fondato La Distesa, azienda vitivinicola a Cupramontana che ha segnato una svolta per il movimento del vino naturale italiano, affermandosi come modello di agricoltura etica, libera dalle logiche industriali e orientata alla sostenibilità e alla biodiversità. La Distesa non fu solo un’azienda agricola, ma un atto di resistenza: un rifiuto dell’omologazione, una dichiarazione di autonomia. Coltivare vino naturale, prendersi cura di un territorio, intrecciarsi con una comunità significava riscrivere il concetto di progresso, sottraendolo alle logiche imposte dal capitale.
Oggi, venticinque anni dopo, il mondo ha attraversato crisi finanziarie, rivoluzioni tecnologiche, pandemie e guerre, ma La Distesa è ancora lì, più radicata che mai. E non solo: da questa esperienza è germogliato SPORE – Scuola di Campagna, un laboratorio di agro-ecologia politica che va oltre la viticoltura, per rispondere alle sfide del presente – cambiamento climatico, erosione della biodiversità, crisi delle comunità rurali. Italo Svevo scriveva che il tempo non guarisce le ferite, ma le sedimenta, trasformandole in memoria. Dopo venticinque anni, La Distesa dimostra che il tempo non è solo erosione, ma anche radicamento, creazione e resistenza. E il futuro? È ancora da scrivere, ma le nuove “spore” hanno già iniziato a germogliare.